Summoning – “Oath Bound” (2006)

Artist: Summoning
Title: Oath Bound
Label: Napalm Records
Year: 2006
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Austria

Tracklist:
1. “Bauglir”
2. “Across The Streaming Tide”
3. “Mirdautas Vras”
4. “Might And Glory”
5. “Beleriand”
6. “Northward”
7. “Menegroth”
8. “Land Of The Dead”

Un giuramento sacro viene pronunciato in tutta la sua solennità ai piedi del monte le cui pendici sono avvolte nella minaccia di nubi nere, con gli arti a bagno nel lago gelido, nella gravità immota della sua promessa necessariamente difesa fino all’ultima goccia dello stesso sangue che da principio, così come in eterno, l’ha sigillato. È tale quello di Morgoth, l’Oscuro Signore, il Re Antico a sua volta omicida di re e primo Valar, Lucifero invidioso del suo creatore votato alla conquista ossessiva ed egoisticamente vendicativa dell’intera Terra di Mezzo, così come quella di Fëanor che, in ciò a lui speculare, s’impegna con testimone il destino a maledirne e vendicarne l’ignobile misfatto, il furto di quei tre Silmaril della luce di Valinor che dà inizio ad un’epopea di dimensioni cosmologiche; ed è tale, non meno imponente e per di più idealmente castrante ai fini creativi di un artista, quello che lega in vita il Protettore di ogni sonno senza fine ed il figlio lunare di Dioniso, vergato implicitamente dai due e con ciò all’unisono impostisi per volontà ferrea di non cambiare mai e poi mai nell’essenza, qualunque cosa possa accader loro al di fuori. A non tradire, ovverosia, quella Fiamma imperitura: quella passione di ragazzi che si è trasformata presto -ed ancor più in età matura- nel dono privato da non sprecare (pena il venir meno all’antica promessa) e nel regalo ancor più squisito di una forma mundi intera, rivista e riconcettualizzata dai propri occhi e tramite la loro opera omnia per altri, tradotta in concetto e distinto sapore musicale che divengono col tempo un vero rituale scandito dai soliti, potentissimi movimenti nel solito, cavernoso home studio con il fine ultimo e quasi commoventemente ingenuo di aggiungere altre pietre preziose dalla sempre singolare luce alla corona bicorne di un lavoro che resti profondamente, tematicamente e persino visivamente unitario. È la messinscena eterna, fin dai modi, della musica degli Ainur: un’orchestra antica che continui imperturbabile a suonare lenta, epica, forte delle luci (“Let Mortal Heroes Sing Your Fame”) e delle ombre (“Stronghold”) di melodie incastonate nei ritmi solenni di una batteria elettronica pionieristicamente suonata alla tastiera – lontanissima dalle meccaniche umane dei palcoscenici, fatta per l’ascolto solitario, appartato e in cuffia.

Il logo della band

Ma è del resto lo stesso giuramento da fuori croce o delizia di chi, volando sulle ali potenzialmente infinite della fantasia e della metafora universale che vi si nasconde, non necessita di cambiare mai quella casa, quella stabilità anzi delicata e fragile a cui è necessario tornare per poter creare e non perdersi. Di non traslocare mai quindi, ad esempio pratico, di label in label nonostante gli avvenimenti esterni e dall’artista assolutamente indipendenti (quelli in questo caso di una Napalm Records cresciuta decisamente inadatta per un gruppo tanto affermato nell’underground quanto orgogliosamente low-budget per ammissione dello stesso, e per assurdo forse proprio per questo motivo perfettamente funzionale nel rapporto ambo le parti), sembrino ad occhio esterno chiamarlo a gran voce nel tentativo dovuto di proteggere inalterata la natura fragile della propria personale trasposizione di un’Arda corrotta, da venticinque anni tesa verso una nuova Genesi.
La proverbiale catena che ha legato indissolubilmente ognuno dei due componenti all’altro dopo la stabilizzazione a coppia impegnatasi anima e corpo, ma solo qualora l’ispirazione del fuoco segreto finalmente chiami, ad aggiungere tasselli tramite perseverante labor limae a quel lavoro di una vita che a distanza di un decennio dall’inizio spirituale alle porte della fortificata Minas Ithil, la torre di un’iniziale devozione alla magia nera, raggiunta una volta superata l’inevitabile vista orrida dell’adamantina Barad-dûr, si arricchisce così nel 2006 dell’inossidabile anello “Oath Bound”: il sesto full-length che, tre lustri dopo la sua pubblicazione, rimane una pietra miliare nell’operato del duo austriaco, correttamente considerato quale uno dei suoi vertici creativi più alti. La sua gestazione, ironicamente la più lunga mai curata da Silenius e Protector fino a quel momento: cinque anni dal rilascio di “Let Mortal Heroes Sing Your Fame”, di cui quasi quattro trascorsi nell’abbandono pressoché totale del progetto. Come Theoden sotto l’incantesimo di Saruman, Gregor si ritrova per tre inverni privato della forza di qualunque buona idea (presumibilmente castrate da una sequela di circostanze personali culminate nella morte del padre per un cancro e nella perdita del lavoro – la cui angoscia è facilmente udibile tra le righe escapiste di “Oath Bound”), mentre i problemi economici crescenti restringono l’equipaggiamento dei due e Lederer si ritrova conseguentemente più coinvolto con i Die Verbannten Kinder Evas (i quali avrebbero avuto da programma la precedenza, per motivi tempistici di release, ma che contemporaneamente si dilungano nella realizzazione di “Dusk And Void Became Alive” per più di tre anni risolvendo lo stallo soltanto nello stesso anno grazie alla nuova cantante Christina Kroustali).

La band

Cionondimeno, “Oath Bound” è uno di quei dischi che incanalano dentro loro stessi tutto lo sconforto, lo stress, la negatività, le frustrazioni e le delusioni di un periodo per permettere che si trasformino in qualcosa di meraviglioso. Più che mai la musica dei Summoning si carica nel 2006 di un feeling nostalgico e di riconquista, della malinconia totalmente ultraterrena abbinata alla crudeltà destrutturata dei soli suoni ascrivibili al Black Metal per passare dall’esplorazione del mero lato oscuro dell’universo tolkieniano, in particolare tale da “Dol Guldur” a “Stronghold” e senza misteri da sempre il punto sia di partenza che d’arrivo concettuale del sodalizio artistico, agli aspetti e suoni più aperti, epici ed eroici del precedente “Let Mortal Heroes Sing Your Fame” iniziando ad utilizzare giusto nel 1999 -fatto inedito- anche altri testi e poesia di autori alieni al fantasy del celebre progenitore britannico, ma trascesi oltre la loro opera e plasmati, ad esso ricondotti – riletti e trasposti nella linea nobile di quella combinazione di forze che sono le sette effettive canzoni di potere e gloria, di mistero e viaggio ma anche di squisita umanità incluse in “Oath Bound”.
E se musicalmente proprio il suo diretto precedente riporta in primo piano la polifonia sinfonica che fu nettamente più dimessa nell’ultimo disco degli anni ‘90 dei Summoning (con cui, ad ogni modo, ancora il parto del 2001 condivide l’approccio più ritmico e strutturalmente Rock delle chitarre), ciò da cui prende le sue mosse l’acclamato sesto full-length sono di nuovo proprio le melodie roboanti di quelle tastiere cariche di magia mitica, dello straordinario, pur rifuggendo tutti i sentori più immediatamente maestosi e le cromie più vivaci del Draco Niger Grandis, cercando e trovando specchio invece nelle atmosfere più dimesse, malinconiche e cupe di “Stronghold” (pavimentate fin dal ben più contenuto titolo), e bollando come peculiarità o esperimento nemmeno troppo riuscito, nel farlo, la ridondanza eccessiva dei campionamenti vocali tanto fitti nei più brevi brani che lo precedono; uno stratagemma affinato, reso qui memorabile e cruciale nella narrazione proprio perché relegato alle sole “Menegroth” e nell’introduzione “Bauglir”. Nella creazione di un disco più brullo, malinconico, povero e prezioso insieme, vengono invece tenuti ed accresciuti d’importanza e presenza i cori timidamente inclusi in “Farewell”, cantati dagli stessi Silenius e Protector nel pezzo da novanta, il futuro classico “Land Of The Dead” e nella non meno notevole “Might And Glory”, ma contribuisce in prima istanza la vera rivoluzione chitarristica operata dal solo Lederer: esiliato è, per la prima volta con una tale metodologicità, qualunque staccato chitarristico dal gusto classico o Metal, rilassando ed inscheletrendo lo stile delle sei corde che fluttuano spettrali come i Nazgûl di “Mirdautas Vras” in accordi inusuali, strazianti e principalmente arpeggiati, facendo eseguire alla distorsione il compito acre di creare delle tele armoniche piuttosto che ritmi, e vengono anche per questo intelligentemente alzate di volume nell’etereo mix. I suoni di chitarra dal tono più acuto ma sottile per frequenze permettono così ai colpi eclettici dell’impianto percussionistico elettronicamente ricreato (più ipnoticamente dinamico e lontano anni luce dagli errori tipicamente Metal di pressoché qualunque epigono su coordinate simili) di rimbombare loud e suonare ancora più forti e possenti; due elementi strutturali che, insieme, permettono alle canzoni di sembrare ancora più lente senza in realtà esserlo, facendole guadagnare in epicità senza dover ricorrere all’esagerazione kitsch di melodie apertamente bombastiche che rovinerebbero non solo il mood tetro, seppure in più d’un momento battagliero (l’incalzante “Beleriand” e la plumbea “Northward”), dell’intero “Oath Bound”, ma cancellerebbero il motivo primo della sua grandezza: l’intreccio fiabesco degli svariati temi strumentali sovrapposti e polifonici che costruiscono, ognuno anello di una delle catene che lo tengono insieme, l’evolversi di ogni brano affinché l’ascolto dei Summoning, tanto di “Across The Streaming Tide” quanto di “Land Of The Dead”, non finisca per incanalare e guidare l’ascoltatore in una sola direzione possibile -quella di una melodia principale per posizione nello spettro sonoro comunque presente (fattore ad oggi rivoluzionato soltanto nell’ultimo, proprio in questo brillante “With Doom We Come”)- ma che conserva e gli regala con ciò l’inalienabile possibilità di spaziare con la sua personale fantasia e manipolare nella sua mente il brano come fosse seduto al banco del mixer accanto ai suoi autori.
E allora non serve nemmeno che, come ad ogni modo avviene, “Mirdautas Vras” sia apparentemente la prima canzone nella storia ad essere mai stata scritta interamente nella lingua nera di Mordor (dall’amico Stefan Huber, esclusivamente per la band, che ne redige un testo ben più lungo di quello cantato e i cui out-take saranno utilizzati poi in “Redhorn”, versione alternativa di “Caradhras” inclusa nel disco bonus che accompagna l’edizione earbook di “Old Mornings Dawn”) per rendere speciale, clamoroso od unico un simile album oltre la sua superficie; perché è la sua musica così semplice, una pietra preziosa così grezza ma tanto elegante e in verità curata, a permettere facilmente di immaginare e vedere abbassando le palpebre i due noldor che, armati di tibiae flautate da suonare e di una poesia di guerra sconosciuta da cantare, lasciano un’imbrunita Valinor marciando lontani verso il fato a nordovest, verso i dodici minuti che diventano eternità e qualche secondo al contempo in Beleriand, terra dei morti situata oltre l’occhio chiuso del giorno dove nessun suono viene più udito – dove nessun cuore più batte, tra gli alberi spogli ed immobili dove i sentieri sono fatti di ombre e senza impronte, mentre la luna non brilla più nel cielo nero, schiacciante, vicino e liberatorio sopra le loro teste.

Completato persino dall’artwork di copertina più evocativo a quel punto mai impresso su libretto e carta dalla volontà degli austriaci (paesaggio glorioso dipinto a fine 1800 da quell’Albert Bierstadt la cui arte è scoperta da Silenius ed incorniciata al servizio di Protector qui per la prima volta, cromaticamente piegata, asservita anche per illustrare il retro e l’interno dell’album dopo aver ormai esaurito le scorte di Friedrich e Mark Harrison fuori e dentro i precedenti dischi), quello che ad oggi è ancora il lavoro più lungo mai uscito dai Nachtschattenstudio nonostante sia nel 2006 non trascurabilmente già il sesto completo, è uno composto da precedenti importanti tanto per gli sviluppi della band (che creano un trascorso di metodo da cui partiranno moltissime delle ulteriori intuizioni ancor più fini e vive di “Old Mornings Dawn”, partorito nel 2013 allungando ulteriormente l’attesa più dilatata ad oggi mai intercorsa per un disco del duo più famoso d’Österreich) quanto per coloro che proprio a partire dal fulminante “Oath Bound” inizieranno ad estrapolarne gli esempi stilistici e visuali in particolar modo durante i dieci anni successivi alla sua pubblicazione. Tanto importante presumibilmente per i suoi stessi autori, perfettamente consci del fatto e del suo valore giunti ai tocchi finali della produzione, e contro ogni previsione iniziale tanto ispirato e corposo da aver portato i Summoning a tagliarne fuori un paio di brani già completi per affilarlo alla perfezione e non fargli così sforare i settanta minuti di timing complessivo; un EP viene per giunta pianificato al fine di contenerli e permettere di regalarli ugualmente al pubblico seppur separatamente (non dissimilmente a quanto avviene tra “Dol Guldur” e la sua coda d’uscita nei deserti di “Nightshade Forests” nel 1997), ma la sua realizzazione e pubblicazione presto allontanata dalle menti dei perfezionisti creatori, a quel punto, con ogni probabilità, già intente a lavorare sul box riassuntivo “Sounds Of Middle-Earth” e lasciatesi con buona ragione alle spalle il lavoro più impegnativo mai creato – senza sorpresa, non solo uno degli album più amati dai fan della band, se non il più largamente apprezzato in assoluto, ma uno dei più alti vertici raggiunti dal suo genere.
Nuovamente dunque immersi, persi però in un nuovo compito di supervisione del proprio operato d’inizio carriera, si sarebbero mostrati una volta di più autentici guardiani di un universo intertestuale, veri maestri della loro arte: la capacità di creare qualcosa senza tempo e del tempo incurante, un mondo che è storia parallela al nostro mondo, incrociata solo quando le note grevi di un disco dei Summoning, vere proprio nella loro assoluta finzione, escono inimitabili dallo stereo facendo evadere moltissimi da una realtà che sarebbe altrimenti ineludibile; e per questa solida, unica vocazione ed un disco come “Oath Bound” saremo eternamente grati.

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=qq-_QBfMgUU

Precedente Vreid - "Pitch Black Brigade" (2006) Successivo Draugr - "Nocturnal Pagan Supremacy" (2006)